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fosse trepestio di ragazzi, era una cosa d’altri tempi. Pareva incredibile che, nel buio della notte, anche su quel calmo cielo tra le case avesse infuriato il finimondo. Dissi a Domenico di andarsene, se voleva, a cercare Fellini. Sarei rimasto in portieria ad aspettarli.
Passai mezza la mattina riordinando il registro di classe per gli scrutini imminenti. Facevo addizioni, scrivevo giudizi. Di tanto in tanto alzavo il capo al corridoio, alle aule vuote. Pensavo alle donne che compongono un morto, lo lavano e lo vestono. Fra un istante il cielo poteva di nuovo muggire, incendiarsi, e della scuola non restare che una buca cavernosa. Solamente la vita, la nuda vita contava. Registri, scuole e cadaveri erano cose già scontate.
Borbottando nel silenzio i nomi dei ragazzi, mi sentii come una vecchia che borbotta preghiere. Sorridevo tra me. Rivedevo le facce. Ne erano morti stanotte? La loro allegria l’indomani di un bombardamento — la vacanza prevista, la novità, il disordine — somigliava al mio piacere di sfuggire ogni sera agli allarmi, di ritrovarmi nella stanza fresca, di stendermi nel letto al sicuro. Potevo sorridere della loro incoscienza? Tutti avevamo un’incoscienza in questa guerra, per tutti noi questi casi paurosi si erano fatti banali, quotidiani, spiacevoli. Chi poi li prendeva sul serio e diceva — È la guerra, — costui era peggio, era un illuso o un minorato.
Eppure, stanotte qualcuno era morto. Se non migliaia, magari decine. Bastavano. Pensavo alla gente che restava in città. Pensavo a Cate. Mi ero fitto in testa che lei non salisse lassú tutte le sere. Qualcosa in questo senso mi pareva di aver sentito nel cortile, e infatti da quella volta dell’allarme non avevano piú cantato. Mi chiesi se avessi qualcosa da dirle, se da lei temessi qualcosa. Mi pareva soltanto di rimpiangere quel buio, quell’aria di casa e di bosco, le voci giovani, la novità. Chi sa che Cate quella notte non avesse cantato con gli altri. Se nulla è successo, pensai, stasera tornano lassú.
Suonò il telefono. Era il padre di un ragazzo. Voleva sapere se davvero non c’era lezione. Che disastro stanotte. Se i professori e il signor preside erano tutti sani e salvi. Se suo figlio studiava la fisica. Si capisce, la guerra è la guerra. Che avessi pazienza. Bisognava comprendere e aiutare le famiglie. Tanti ossequi e scusassi.
Da questo momento il telefono non ebbe piú pace. Telefonarono ragazzi, telefonarono colleghi e segretaria. Telefonò Fellini, da casa del diavolo. — Funziona? — disse sorpreso. Sentii la smorfia
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