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II.
Quando sbucai sulla strada e ascoltavo guardando nel buio, di là dalla cresta, quasi sommerso nelle voci dei grilli, suonava l’allarme. Sentii, come ci fossi, la città raggelarsi, il trepestio, porte sbattersi, le vie sbigottite e deserte. Qui le stelle piovevano luce. Adesso il canto era cessato nella valle. Belbo abbaiò, poco lontano. Corsi da lui. S’era cacciato in un cortile e saltava in mezzo a gente ch’era uscita da una casa. Per la porta socchiusa filtrava una luce. Qualcuno gridò: — Chiudi l’uscio, ignorante, — e risero, vociando. La porta si spense.
Conoscevano Belbo, tra loro; qualcuno nominò con buon umore le due vecchie, mi accolsero senza chiedermi chi fossi. Andavano e venivano al buio; c’era qualche bambino, e si guardava tutti in su. — Verranno? Non verranno? — dicevano. Parlavano di Torino, di guai, di case rotte. Una donna seduta in disparte mugolava tra sé.
— Credevo che qui si ballasse, — dissi a caso.
— Magari, — fece l’ombra del giovane che per primo aveva parlato con Belbo. — Ma nessuno si ricorda di portare il clarino.
— Ce l’avresti il coraggio? — disse una voce di ragazza.
— Per lui, ballerebbe, con la casa che brucia.
— Sí, sí, — disse un’altra.
— Non si può, siamo in guerra. Italiani, — qui la voce cambiò, — questa guerra l’ho fatta per voi. Ve la regalo, voi siatene degni. Non si dovrà piú né ballare, né dormire. Dovete solo fare la guerra, come me.
— Sta’ zitto, Fonso, se ti sentono.
— Che vuoi farci? si canta.
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