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XXII.

Stemmo cosí molto tempo. Da un pezzo ormai s’era sentito il motore riattaccare, e un contrasto di voci tra gli alberi. Poi il rombo si era allontanato.

Spuntò una donna alla svolta. Scendeva correndo. La attesi in mezzo alla strada e le chiesi che cos’era successo. Mi guardava atterrita. Aveva sul capo lo scialle. Anche il vecchio dei buoi sporse la faccia dalle canne. La vecchia gridò qualcosa, si strinse le mani alle orecchie; io le chiesi: — C’è gente lassú? — Lei annuí, senza parlare, col mento.

Sbucò alla svolta un giovanotto in bicicletta. Veniva giú a rotta di collo. — Si può passare? — gli gridai. Lui buttò a terra un piede scalzo, stette su per miracolo, mi gridò di rimando: — Ci sono morti, tanti morti.

Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete, s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi.

Uno — divisa grigioverde tigrata — era piombato sulla faccia, ma i piedi li aveva ancora sul camion. Gli usciva il sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo, imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto di cenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigidito ginocchioni contro il


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