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XXI.

A mezzogiorno camminavo sulle colline libere, e tedeschi e repubblica li avevo lasciati chi sa dove nella valle. Avevo perduto la strada maestra; gridai a certe donne che voltavano il fieno in un prato, per dove si andasse nel paese vicino al mio. Mi fecero segno di tornare alla valle. Gridai di no, che la mia strada era attraverso le colline. Coi forconi mi dissero di proseguire.

Non si vedevano paesi, solamente cascine sui versanti selvosi e calcinati. Per raggiungerne qualcuna avrei dovuto dilungarmi sui sentieri ripidi, nell’afa delle nuvole basse. Scrutavo attento i lineamenti delle creste, gli anfratti, le piante, le distese scoperte. I colori, le forme, il sentore stesso dell’afa, mi erano noti e familiari; in quei luoghi non ero mai stato, eppure camminavo in una nube di ricordi. Certe piante di fico contorte, modeste, mi sembravano quella di casa, del cancello dietro il pozzo. Prima di notte, mi dicevo, sono al Belbo.

Una casetta sulla strada, annerita, sfondata, mi fermò e fece battere il cuore. Pareva un muro sinistrato di città. Non vidi anima viva. Ma la rovina non era recente: sulla parete, dove prima era una vite, spiccava appena la macchia azzurra del verderame. Pensai all’eco dei clamori, al sangue sparso, agli spari. Quanto sangue, mi chiesi, ha già bagnato queste terre, queste vigne. Pensai che era sangue come il mio, ch’erano uomini e ragazzi cresciuti a quell’aria, a quel sole, dal dialetto e dagli occhi caparbi come i miei. Era incredibile che gente come quella, che mi vivevano nel sangue e nel chiuso ricordo, avessero anche loro subito la guerra, la ventata, il terrore del mondo. Per me era strano, inaccettabile, che il fuoco, la politica, la morte sconvolgessero quel mio passato. Avrei voluto


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