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XIX.
Venne maggio e anche in collegio le giornate si fecero piú vive e rumorose. Nel cortile buio la sera, e nella luce odorosa e fredda del mattino, era un perenne vociare, un accorrere, un pullulare di notizie. Le scuole finivano a giorni, l’avanzata alleata era in corso e aveva innanzi mesi e mesi di bel tempo. Dei miei colleghi nascosti, quei ragazzi del Sud, già qualcuno era partito per raggiungere le linee e salvarsi.
Le camerate si vuotarono, si vuotò il refettorio: i convittori rincasavano. In pochi giorni si dispersero per le campagne, e restai nel collegio deserto, tendendo l’orecchio ai passi radi di un prete o di un ritardatario. Era inteso che noi assistenti potevamo mangiare e dormire come prima, ma in quel silenzio, in quella pace, non pensavo che a Dino. Mancava da quasi un mese, e ci soffrivo al punto che, se avessi saputo come, sarei partito a cercarlo. Adesso erano tali le notizie della guerra, che di montagne e di ribelli non si sentiva piú parlare. Forse non c’era piú pericolo. Ma la gita dell’Elvira mi tolse la voglia.
Venne a dirmelo apposta, in collegio. Era stata a Torino, oltre Dora, era stata alle carceri, aveva tirato in mezzo qualche prete. Del ragazzo nessuna notizia; se davvero era arrivato in montagna, nelle ultime settimane era finito chi sa dove. Certe bande, si diceva, sconfinavano in Francia. Non era posto da bambini, lassú. Tutti gli altri, le donne, la madre, i parenti, un mese prima erano stati deportati. L’aveva detto un cappellano che sapeva la storia delle Fontane e che aveva creduto li fucilassero tutti. — Ma è lo stesso, — diceva, — di là non ritorna nessuno.
Che altro fare sotto il portico vuoto se non riassaporare mattino e sera l’antico spavento? Potevo sí andare a passeggio, riattraversare le campagne e le piazze, ma trascorrere i giorni in quella
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