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Queste sciocchezze mi facevano piacere, mi ridavano vita, come a un cane una carezza sul collo.

Passò cosí una settimana, ma stare in casa mi pesava. Tornare a Chieri non osavo ancora. Ne parlai con l’Elvira e lei disse: — Chi sa come sta quel ragazzo. Bisogna almeno che gli porti le mele.

Cosí l’indomani fece lei la gita. Passai la giornata leggendo. Quando tornò, era inviperita, senza fiato. Dino mancava nel collegio da sei giorni.

La lasciai scaricarsi contro i preti e il portiere. Non le chiesi nemmeno se avevano fatto ricerche, se si avevano tracce. Dov’era andato, lo sapevo. Lo sapevo da un pezzo. Non dissi nulla, e me lo vidi camminare per Torino, starsene zitto, buttarsi nei fossi, arrivare lassú.

Nient’altro accadeva in collegio. Il nostro era stato un allarme inutile. Il rettore diceva che potevo rientrare.

Lasciammo passare due giorni. Dissi all’Elvira della casa oltre Dora, dove forse qualcosa sapevano di lui o dei suoi. Io laggiú non potevo arrischiarmi. Pensavo sovente: «Se Cate ritorna e mi chiede dov’è?»

Poi mi decisi e ritornai a Chieri. Dissi all’Elvira di portarmi ogni notizia. — Se Dino non trova nessuno, — le dissi, — sa la strada e ritorna — . Per tutto il tragitto immaginavo di vedermelo sbucare davanti, di pigliarlo per mano, di andare con lui. Invece all’entrata di Chieri incontrai la pattuglia dei militi. Mi vennero incontro sornioni sbucando dal viale. Uno era giovane, un ragazzo; gli altri tre, facce nere e cattive. Tenevano il fucile imbracciato, a canna in giú. Mi passarono accanto e non dissero nulla.


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