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lungone che era stato avanguardista si vantava di voler denunciare il collegio, di avere amici alla brigata nera, di essere pronto a fare i nomi dei renitenti nascosti. Quella notte non chiusi occhio. Dissi a Dino di farci attenzione. Se finivo in caserma, ero morto. Ricominciò quel batticuore della fuga, l’angoscia dell’alba. Ne parlai con padre Felice. Non si poteva far nulla. Punire il ragazzaccio era peggio. Poi un giorno il rettore rientrò col cappello negli occhi, mi fece cenno di seguirlo, e mi portò sotto la scala. — Che nessuno ci veda, — mi susurrò senza fermarsi. — Lei farà bene ad assentarsi. C’è pericolo, e molto.

Cosí partii senza dir nulla a nessuno. Dino era in classe e non lo vidi. Me ne andai col fagotto, com’ero venuto. Lasciai Chieri, palpitante e felice, e al tramonto, col sole negli occhi, sulla vetta dei colli brulli ma umidi di primavera, spaziavo lo sguardo come da tempo avevo ormai dimenticato. Giunsi alla villa con cautela e nessuno mi vide. Il primo saluto l’ebbi da Belbo che balzò sulla ghiaia.

Quella sera cenammo piú tardi del solito, ascoltammo la radio e si parlò della guerra, di Dino, di quell’altro precoce delinquente. L’Elvira disse, dominandosi, che gente cosí ce n’era pure nelle ville e se i tedeschi non mi avevano cercato sinora era perché le loro spie mi sapevano lontano. Nessuno doveva vedermi, dichiarò la madre.

Stetti nascosto qualche giorno, non mi feci vedere nemmeno dall’Egle; osservavo il frutteto dalla finestra socchiusa. Godevo a trovarmi nell’ambiente consueto avendo in cuore altri pensieri e speranze. Cos’avrei dato per sapere di Cate e degli altri. L’Elvira mi disse che le Fontane erano state chiuse a chiave, non si sapeva da chi. Uscivo la sera in frutteto con Belbo, guardavo nel buio verso Torino dove tante cose accadevano; le stelle rade tra gli alberi spogli parevano i boccioli sui rami. Non avevo che fare; pensavo a Dino dappertutto, alle cose che Cate diceva; costernato ammettevo che, se Cate non sarebbe uscita viva, da nessuno avrei saputo mai piú se era mio figlio. Forse adesso vuol dirmelo, pensavo, forse piange perché non l’ha detto. Forse ha ragione padre Felice e tocca a me, tocca a chi resta, rimediare.

Un giorno l’Elvira disse: — Da Torino hanno chiesto di lei. La segretaria, che conosce l’Egle, le manda gli augurî.


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