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uomini gialli. Pensavo che tutto si avvera, anche le voglie inconcludenti di un ragazzo.
Era ormai chiara primavera, e la domenica i ragazzi uscivano in colonna per Chieri e la campagna. Io respiravo l’aria fresca e il sole nel cortile deserto. Mi chiedevo se la guerra sarebbe finita sotto quel cielo, entro aprile, entro maggio. Le notizie, le radio, tornavano a scuotere il sangue. Dappertutto infuriavano offensive, grandi sbarchi, speranze. Avevo una volta messo il naso fuori dal portone. Da quando sapevo che nessuno era piú stato a cercarmi, ero uscito nella viuzza, ero giunto a una piazzetta — solenne e incredibile, c’era una chiesa e un campanile — avevo visto dietro i tetti la collina, la collina del Pino lontana, violacea. Ma valeva la pena correre rischi, se la guerra finiva domani? Stavo meglio in cortile. Non invidiavo quanti andavano a passeggio. Li ascoltavo parlare quando rientravano.
Si sapeva della caserma dei militi, che neri e bestiali battevano le campagne e di notte sparavano ai vetri. Loro nemici erano i giovani di leva e gli sbandati renitenti. I ragazzi del Sud, rifugiati con me nel collegio, gli passavano sotto i baffi, gli contendevano le donne dei caffè. Mi raccontavano ghignando le loro imprese: storie di beffe, di panchine, di prati. Non vollero smettere nemmeno quando i neri ammazzarono in piazza un patriota. — Fetente, — dissero, — girava armato, si capisce — . Un giorno il rettore ci chiamò tutti quanti e ci fece la predica. Che la smettessimo di andare a donne. Il buon nome, i ragazzi. Se anche i tempi erano gravi, niente scusava quel disordine. La salute comincia da un vivere onesto. Non ci parlò dell’altro rischio.
Un altro giorno colsi Dino che discuteva la guerriglia in un crocchio di compagni. Davano addosso a uno di loro, lungo e ossuto, che difendeva la repubblica. Gli chiedevano sarcastici perché non veniva piú a scuola in divisa. Qualcuno gli dava spintoni. Dino, bassotto tra i piú accesi, strillava: — E allora dov’è il socialismo? dov’è il socialismo? — Ma già padre Felice s’era messo dentro il crocchio e li zittiva. — Non lo sapete ch’è peccato? — disse, burbero, ai grandi. Li fece ridere e ne prese qualcuno a scapaccioni. Non mi piacque la smorfia di Dino.
Lo raggiunsi piú tardi, seduto sul piede di una colonna. Mi vide venire e non alzò il capo. Gli chiesi se era quello il modo di farsi provocare, se era cosí che si tenevano i segreti. — Se tu fossi
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