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XVIII.
Dino capí da una mia occhiata e da un cenno, che prima d’allora non c’eravamo mai veduti. Gli chiesi la sera, mentre entravamo in cappella, se non era ancora stato in un collegio. Mi rispose, senza levare gli occhi, che prima stava con la mamma. Fece meglio di me la commedia: sbalestrato com’era, non dovette certo fingere. Ci passavano intorno ragazzi, qualcuno ascoltava. Gli dissi allora che per vivere in collegio bisogna scordarsi la vita passata, nemmeno parlarne. — Chi chiacchiera, — dissi, — è una donnetta, non un uomo.
Il giorno dopo lo vidi che correva e gridava con gli altri ragazzi. Meno male. Non faceva il musone, non stava in un angolo: io mi chiedevo se al suo posto sarei stato cosí bravo. Sentii persino un certo orgoglio dispettoso e mi dissi che, va bene, lui era un bambino, ma la stoffa di noi due era simile. Se Fonso, pensai, fosse chiuso in collegio, farebbe la vita che faccio? Già l’idea era assurda. Fonso correva le montagne e rischiava la pelle. Com’era possibile? Tutti i suoi giorni erano morte, come a me quel mattino che dovevo essere preso. Nemmeno negli anni lontani, nemmeno bambino, avevo avuto il sangue ardito di Fonso. Ero diverso anche da Dino. E adesso Dino non aveva piú nessuno se non me.
Lo guardavo correre. Lo guardavo dare spintoni ai compagni in cappella. Lo guardavo sbirciar le vetrate e pregare. Aveva un maglione sotto la giacchetta, le mani tozze e arrossate, gli occhietti cocciuti. Metteva un grande impegno a giocar bene il nostro gioco, a restare impassibile, a farmi furbeschi saluti. Mi ricordavo dell’estate, di Gordon, della conca dei selvaggi, degli
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