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volgendosi a me tentò un sorriso. — Siamo venuti con il parroco, mi disse. — Il parroco dice che questo ragazzo non può crescere abbandonato. Ha bisogno di scuola, di guida. Frequentare a Torino non può, chi l’accompagna? Il parroco spera di farlo accettare in collegio. Lo prenderanno, è quasi un orfano.

La strana idea mi rivoltò, per il pericolo evidente. Dino poteva far da pista e tradirmi, e l’idea che ormai fosse solo al mondo non riuscivo a pensarla, mi pigliava sprovvisto.

— Qui fanno una retta, — insistè l’Elvira, — eccezionale, per i casi come il nostro. Costerà poco o niente. È una grossa carità...

Cosí Dino rimase in collegio, e l’Elvira ci lasciò scrutandomi inquieta, assicurandomi che avrebbe portato altra roba, che adesso Dino ci faceva paravento. Mi passò anche i saluti di sua madre e dell’Egle. Disse che a tavola mettevano il mio piatto ogni sera. Era successo che sia lei che sua madre mi avevano sognato che scendevo le scale, e queste cose si avverano sempre.


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