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ragazzi mi umiliavo in un cantuccio e scaldavo le mani a quel piatto, mi compiacevo di esser come un mendicante. Che certi ragazzi brontolassero sulla preghiera, sul servizio, sui cibi, mi metteva a disagio, mi riempiva di un superstizioso rancore, di cui del resto mi accusavo. Ma per quanto tacessi, chinassi la testa, raccogliessi i pensieri, non ritrovavo piú la pace di quel giorno della chiesa. Entrai qualche volta da solo in cappella, nel freddo buio mi raccolsi e cercai di pregare; l’odore antico dell’incenso e della pietra mi ricordò che non la vita importa a Dio ma la morte. Per commuovere Dio, per averlo con sé — ragionavo come fossi credente — bisogna aver già rinunciato, bisogna essere pronti a sparger sangue. Pensavo a quei martiri di cui si studia al catechismo. La loro pace era una pace oltre la tomba, tutti avevano sparso del sangue. Com’io non volevo.

In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di esser ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia. Volevo esser buono per essere salvo. Lo capii cosí bene che un giorno mollai. Naturalmente non fu in chiesa, ero in cortile coi ragazzi. I ragazzi vociavano e giocavano al calcio. Nel cielo chiaro — quel mattino aveva smesso di piovere — vidi nuvole rosee, ventose. Il freddo, il baccano, la repentina libertà del cielo, mi gonfiarono il cuore e capii che bastava un soprassalto d’energia, un bel ricordo, per ritrovare la speranza. Capii che ogni giorno trascorso era un passo verso la salvezza. Il bel tempo tornava, come tante stagioni passate, e mi trovava ancora libero, ancor vivo. Anche stavolta la certezza durò poco piú di un istante, ma fu come un disgelo, una grazia. Potei respirare, guardarmi d’attorno, pensare al domani. Quella sera ripresi a pregare — non osavo interrompere — ma pregando pensai con meno angoscia alle Fontane, e mi dicevo che tutto era caso, era gioco, ma appunto per questo potevo ancora salvarmi.

L’ora piú cruda era l’alba, quando attendevo la campana del risveglio nel lettuccio in soffitta. Tendevo l’orecchio nell’ombra, se mi giungessero rimbombi, tintinnii, secchi comandi. Era l’ora in cui si fanno le irruzioni, in cui si sorprendono nei nascondigli i fuggiaschi. Nel caldo del letto pensavo alle celle, ai visi noti, ai tanti morti. Nel silenzio rivedevo il passato, riandavo i discorsi, chiudevo gli occhi e immaginavo di soffrire con gli altri. Già questo filo di coraggio mi faceva trasalire. Poi venivano suoni lontani,


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