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XVII.
Quel giro di portico intorno al cortile, quelle scalette di mattoni per cui dai corridoi s’andava sotto i tetti, e la grande cappella semibuia, facevano un mondo che avrei voluto anche piú chiuso, piú isolato, piú tetro. Fui bene accolto da quei preti che del resto, lo capii, c’erano avvezzi: parlavano del mondo esterno, della vita, dei fatti della guerra con un distacco che mi piacque. Intravidi e ignorai i ragazzi, rumorosi e innocui. Trovavo sempre un’aula vuota, una scala, dove passare un altro poco di tempo, allungarmi la vita, star solo. I primi giorni trasalivo a ogni insolito gesto, a ogni voce: avevo l’occhio a pilastri, a passaggi, a porticine, sempre pronto a rintanarmi e sparire. Per molti giorni e molte notti mi durò in bocca quel sapore di sangue, e i rari momenti che riuscivo a calmarmi e ricordare la giornata della fuga e dei boschi tremavo all’idea del pericolo cui ero scampato, del cielo aperto, delle strade e degli incontri. Avrei voluto che la soglia del collegio, quel freddo portone massiccio, fosse murata, fosse come una tomba.
Nel giro del portico passarono i giorni. Cappella, refettorio, lezioni, refettorio, cappella. Il tempo cosí sminuzzato chiudeva i pensieri, trascorreva e viveva in luogo mio. Entravo in cappella con gli altri, ascoltavo le voci, chinavo il capo e lo rialzavo, ripetevo le preghiere. Ripensavo all’Elvira, se l’avesse saputo. Ma ripensavo anche alla pace, alla scoperta di quel giorno della chiesa, e coprendomi gli occhi covavo il tumulto terribile. Le vetrate della cappella erano povere e scure, il tempo s’era guastato e oscurato, piovigginava giorno e notte, io covavo nel freddo il terrore e la chiusa speranza. Quando seduto in refettorio sotto il baccano dei
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