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dicendosi; «Ecco, questo sarà il mio piú vivo ricordo del passato; ci penserò l’ultimo giorno come al simbolo di tutta questa vita; lo godrò, allora». Cosí si faceva in carcere, scegliendo una giornata sulle altre, un istante sugli altri, e dicendo: «Devo abbandonarmi, sentire a fondo quest’istante, lasciarlo trascorrere immobile, nel suo silenzio, perché sarà il carcere di tutta la mia vita e lo ritroverò, una volta libero, in me stesso». E questi attimi, com’erano scelti, cosí dileguavano.

Doveva conoscerne molti l’anarchico, che viveva a una perenne finestra. Se pure non pensava a tutt’altro e per lui la prigione e il confino non erano come l’aria la condizione stessa della vita. Pensando a lui, pensando al carcere passato, Stefano sospettava un’altra razza, di tempra inumana, cresciuta alle celle, come un popolo sotterraneo. Eppure quell’essere che giocava in piazza coi bambini, era insomma piú semplice e umano di lui.

Stefano sapeva che la sua angoscia e tensione perenne nascevano dal provvisorio, dal suo dipendere da un foglio di carta, dalla valigia sempre aperta sul tavolo. Quanti anni sarebbe restato laggiú? Se gli avessero detto per tutta la vita, forse avrebbe vissuto i suoi giorni piú in calma.

In un mattino di umido sole, a gennaio, passò sullo stradale un’automobile veloce, carica di valige, che non rallentò neppure. Stefano levò appena gli occhi, e rivisse un altro istante dimenticato dell’estate.

Nel sole torrido del mezzodí s’era fermata un’automobile davanti all’osteria. Bella, sinuosa e impolverata, d’un color chiaro di crema, dal docile e quasi umano arresto, s’era accostata al marciapiedi privo di ombra; e n’era scesa una donna slanciata, in giacchetta verde e occhiali neri, una straniera. Stefano tornava allora dalla spiaggia, e guardava dalla soglia la strada vuota. La donna s’era guardata attorno, aveva fissata la porta (Stefano capí poi che il riverbero del sole la ottenebrava) e voltandosi era risalita sulla macchina, s’era chinata e ripartita, in un lieve fruscio che un poco di polvere aveva involato.

A volte, a Stefano pareva di esser là da pochi giorni e che tutti i suoi ricordi fossero soltanto fantasie come Concia, come Giannino e l’anarchico. Ascoltava le chiacchiere del calvo Vincenzo che all’osteria, mentre lui mangiava, fino all’ultimo leggeva il giornale.


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