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La primavera era illusoria, e la campagna desolata. Dalla spiaggia, triste perché non ci si poteva nemmeno nuotare, Stefano certe mattine spaziava nella luce fredda lo sguardo sulle casette acri e rosee, come in quei giorni lontani del luglio. Sarebbe venuto — doveva venire — un mattino che Stefano dal treno avrebbe veduto l’ultima volta il poggio a picco. Ma quante estati dovevano ancora passare? Stefano invidiò persino l’anarchico relegato lassú, che vedeva pianure, orizzonti e la costa, come un gioco minuscolo attraverso l’aria; in fondo, la nuvola azzurra del mare; e tutto aveva per lui la bellezza di un paese inesplorato, come un sogno. Ma rivide pure l’angustia delle viuzze e delle finestre, le quattro case a perpendicolo sull’abisso, ed ebbe vergogna della sua viltà.

Gliel’aveva detto anche Pierino, la guardia di finanza, che il maresciallo ormai si fidava di lui, chiedendosi persino se piú che colpevole non fosse stato fesso; e Stefano cominciò a spingersi sornione per la strada del poggio, fra gli ulivi, sperando di esser visto di lassú. Dell’anarchico aveva sentito notizie da una donnetta scesa a comprare nel negozio di Gaetano: giocava coi bambini sul piazzale della chiesa, dormiva in un fienile, e passava la sera a discutere nelle stalle. Stefano non avrebbe voluto incontrarlo — viveva ormai di abitudini, e le convinzioni di quel tale, e quella barba, l’avrebbero scosso — ma a dargli il conforto di non sentirsi abbandonato, era disposto.

Passeggiava quindi verso il tramonto sulla strada del poggio, si sedeva su un tronco che guardava una valletta presso la casa cantoniera, e fumava la pipa, come avrebbe fatto Giannino.

Una volta, nell’estate, s’era appena seduto su quello stesso tronco, che aveva sentito uno scalpiccio, e un gruppo di uomini magri — contadini, manovali — era passato, preceduto da un prete in stola. Quattro giovanotti portavano una bara, sulle spalle brune, a maniche rimboccate, ogni tanto asciugandosi la fronte col braccio libero. Nessuno parlava; procedevano a passi disordinati, levando un polverone rossastro. Stefano s’era alzato dal tronco, per rendere omaggio al morto ignoto, e molte teste s’erano voltate a guardarlo. Stefano ricordava di essersi detto che per tutta la vita avrebbe sentito lo scalpiccio di quella turba nell’immobile frescura del tramonto polveroso. Ecco invece che l’aveva già scordato.

Quante volte, specialmente i pruni tempi, Stefano si era riempiti gli occhi e il cuore di una scena, di un gesto, di un paesaggio,


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