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La cosa piú strana era questa: era inverno e apparivano indizi della primavera. Certi ragazzi, dalla sciarpa intorno al collo, passavano scalzi. Qualche verde spuntava nei fossi lungo i campi brulli; e il mandorlo tendeva sul cielo rami pallidi.

Dileguate le piogge, anche il mare ridivenne tenero e chiaro. Stefano, nell’aria fresca, riprese a camminare sulla spiaggia, fantasticando oziosamente che la fine dell’inverno l’avesse annunciata Concia scalza, fin dal giorno di quel suo ingresso nel negozio. Il mare pareva un prato, ma i mattini e le notti eran diacci, e Stefano si scaldava ancora al catino di cenere. La campagna era fango indurito; Stefano la vedeva già colorirsi e ingiallire e ricongiungersi all’estate, e concludere il ciclo delle stagioni. Quante volte vi avrebbe assistito laggiú?

Anche Giannino vedeva finire l’inverno, dal colore dell’aria della sua finestretta. Quante volte vi avrebbe assistito? Per fuggevoli e scarsi che fossero i suoi indizi della primavera — una nuvola o un filo d’erba nel cortile del passeggio — era cosa certa che anche un taciturno come lui ci si doveva abbandonare con struggimento. Forse la grazia della primavera gli riportava a mente qualche tenero ricordo di donna — forse Giannino rideva di essere proprio carcerato per questo — certo, se non sentiva le stagioni e i colori del mondo, Giannino sentiva la bellezza di un grembo, di un gesto femminile, di una scherzosa oscenità. Chi sa che la sua Carmela non fosse contenta pensando che adesso non poteva piú andare a caccia di quaglie.

— Don Giannino Catalano attende il processo per marzo, si ricorda di voi, e vi saluta, ingegnere, — aveva detto il meccanico.


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