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davanti alla sua porta, esitante e immobile: si guardò intorno nel cortile e poi gli tese una mano, dove teneva una bustina ripiegata. Tra le dita annerite e dure spiccava la bianchezza della carta.
Quando comprese ch’era un messaggio, Stefano guardò il pezzente che gli rispose con due occhi immobili e scemi.
Lesse allora, scritto a matita malamente, su un foglietto quadrettato:
È idiota non vederci quando ne abbiamo il diritto (meglio però bruciare il foglio). Se desideri anche tu fare conoscenza e una franca discussione, passeggia verso le dieci domani sulla strada della montagna e siediti sul muretto dell’ultima svolta. Un saluto di solidarietà.
Barbariccia rideva mostrando le gengive. Qualche parola era stata ripassata inumidendo la matita, e il foglietto pareva avesse preso la pioggia.
— Ma chi è? — disse Stefano.
— Non lo dice? — chiese Barbariccia allungando il collo al foglietto. — Quel vostro paesano che sta lassú, comandato.
Stefano rilesse il foglio per imprimerselo in mente. Poi prese un cerino e l’accese, e lo tenne fra le dita finché non sentí la fiamma. Davanti al viso rischiarato di Barbariccia lasciò allora la carta involarsi e cadere a terra annerita.
— Gli dirai che sto male, — disse poi, frugandosi in tasca. — E che non posso disporre di me. E ascolta un consiglio: non portare piú lettere. Eh? Gli dirai che l’ho bruciata.
Stefano aveva sperato assurdamente che il biglietto venisse da Concia, ma gli era parso che anche per lei non si sarebbe mosso, e in un attimo solo aveva visto se stesso. Come in tutte le cose orribili che gli accadevano, c’era da ridere. E Stefano con buon umore aveva chiamato vigliaccheria la sua gelosa solitudine. Poi s’era disperato.
Ma la strada del poggio non l’aveva piú presa. Anche per questo andava invece per quella di Concia, e senza fermarsi.
Chi c’era sul poggio, lassú? Era stato prima che il pezzente facesse quella commissione. Stefano scherzava a denti stretti con Gaetano e questi d’improvviso l’aveva preso per i polsi tenendoglieli come ammanettati.