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Veramente qualcuno pensava a Stefano, ma le lettere che s’ammucchiavano nel cassetto del tavolino ignoravano gli istanti veri della sua vita e insistevano patetiche su ciò che di sé Stefano aveva ormai dimenticato. Le sue risposte erano asciutte e laconiche, perché tanto chi gli scriveva le interpretava a modo suo nonostante gli avvertimenti. E anche Stefano del resto aveva adagio trasformato ogni ricordo e ogni parola, e talvolta ricevendo una cartolina illustrata dov’era una piazza o un paesaggio già noti si stupiva di sé ch’era passato e vissuto in quel luogo.
Nelle giornate di quell’inverno Stefano riprese a recarsi — bevuto un po’ di vino — lungo la strada della casa dei gerani; non piú per sfogare nella camminata verso l’orizzonte un orgasmo ingenuo e veramente estivo, ma per lasciare che i pensieri lo cogliessero e aiutassero. Il vino lo rendeva indulgente e gli dava il coraggio tranquillo di vedersi da quella solitudine vivere nel paese come viveva. Quel se stesso di pochi istanti prima era come l’estraneo della vita anteriore, e persino l’ignoto ch’era stato nella cella. Che la strada per la quale passava fosse quella di Concia e della casa di lei, non significava gran che, e anzi l’impazientiva. Fu pensando alla barriera invisibile che aveva interposto tra sé e Concia, che sospettò la prima volta chiaramente il suo male e gli diede un nome risoluto.
Un giorno Barbariccia l’aveva seguito fuori del paese, senza perderlo di vista coi suoi occhietti rossi. Stefano era in compagnia di Gaetano; e Barbariccia si soffermava quando si soffermavano, e sogghignava quando lo vedevano, sempre a distanza. Gaetano gli aveva detto di andarsene.
Stefano se ne ricordò la sera, quando Barbariccia ricomparve
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