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giava a un bastone: era Barbariccia. Stefano strinse le mascelle, deciso a passar oltre senza ascoltarlo; ma via via che s’accostavano gli venne pietà di quel passo, di quelle pezze sudice che strisciavano, di quelle mani ossute congiunte sul bastone. Barbariccia non si fermò. Fu Stefano che disse qualcosa, cercandosi in tasca le sigarette, e Barbariccia già trascorso rispose sollecito: — Comandate? — ; ma Stefano, confuso, gli fece un cenno di saluto e tirò avanti.

Quella pietà che gli era nata, gli fece spaziare lo sguardo sugli avvallamenti dei campi, dove radi sentieri o comignoli mostravano che dietro una costa, dietro un ciuffo di piante, sorgeva qualche casolare. Non c’era un solo contadino fra le stoppie. Altre volte, incontrandone di vestiti su per giú come Barbariccia, o seduti sulla groppa di un asinello, lesti a toccarsi il berretto; o donne infagottate, scure, con cesti, seguite da capre e marmocchi; aveva sentita e fantasticata una vita dura di stenti e la piú torva delle solitudini: quella di un’intera famiglia sopra un suolo ingrato.

Un giorno, nel negozio di Fenoaltea, aveva detto: — Quel vecchio paese piantato lassú sembra un carcere, messo perché tutti lo vedano.

— Molti ne avrebbero bisogno qui da noi, — aveva risposto Fenoaltea padre.

Ora Stefano fermo guardò le case grige lassú. Ci pensava anche Giannino, sognando il gran cielo? Gli venne in mente che non gli aveva mai chiesto se in quella domenica lontana del suo arrivo, davanti alla piazza, era lui l’uomo seduto impassibile a cavalcioni della sedia, che l’aveva veduto passare con le manette, indolenzito e trasognato per il viaggio. Giannino ora avrebbe rifatto quel viaggio, non verso le invisibili pareti di un paese lontano, ma alla città, verso il carcere vero. Lo prese alla sprovvista il pensiero che ogni giorno entra qualcuno nel carcere, come ogni giorno qualcuno muore. Lo sapevano questo, lo vedevano le donne, quella bianca Carmela, la madre, la gente di Giannino, Concia? E l’altra, la violentata, e le sue vecchie, e tutti quanti? Ogni giorno entra qualcuno nel carcere, ogni giorno su qualcuno si chiudono le quattro pareti e comincia la vita remota e angosciosa dell’isolamento. Stefano decise di pensare a Giannino in questo modo. Teste bruciate come lui, sudici cenci come quei villani, ogni giorno entravano a popolare di carne inquieta e di pensieri insonni le sproporzionate muraglie.


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