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Fra le piogge e il sole la strada perdeva la sua immobilità; e qualche volta era bello, al mattino, poggiarsi a un cantone o al muricciuolo della piazza e osservare il passaggio dei carri — di erbe secche e sarmenti — , carri di conducenti, villani a bisdosso di ciuchi, trotterellio di maiali. Stefano annusava l’odor umido e un po’ mostoso fatto di piogge e di cantina; e dietro la stazione c’era il mare. L’ombra della stazione a quell’ora rinfrescava la piazza, tranne un vano di sole che cadeva dalla vetrata proibita traversando i binari palpitanti e tranquilli. La banchina era un salto nel vuoto. Come Stefano anche il capostazione viveva su quel vuoto, e andava e veniva sull’orlo degli addii, nell’equilibrio instabile della parete invisibile. Correvano lungo il mare i treni neri come riarsi dalla canicola passata, verso remote e sempre uguali lontananze.

Quel capostazione era un gigante invecchiato, ricciutello e osceno, che vociava coi facchini e scoppiava in risate improvvise, sempre al centro di un crocchio. Quando attraversava da solo la piazza, era penoso come un bue senza compagno. Fu per mezzo di lui che Stefano seppe la prima notizia.

Era piantato sulla piazzetta fra Gaetano e due vecchiotti. Uno dei vecchi fumava la pipa. Gaetano, ascoltandoli, fece cenno a Stefano, che s’era fermato, di accostarsi. Stefano sorrise, e in quel momento la voce del capo brontolava ringhiosa: — Catalano potrà dire che ce n’è di puttane ma come le donne!

— Che gli è successo? — disse Stefano a Gaetano che rideva con gli occhi.

— Lo conoscete pure voi? — disse il capostazione, volgendosi


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