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— Però è ben fatta, a parte il muso.
— Dite bene, — disse Giannino pensoso. — È stata tanto nelle stalle e a guardare le pecore, che ha un poco il muso della bestia. Eravamo bambini, quando andavo col vecchio Spanò alla montagna, e lei s’alzava la sottana per sedersi a pelle nuda sopra l’erba come i cani. È la prima donna che ho toccato. Sulle natiche aveva il callo e la crosta.
— Però! — disse Stefano. — Qualcosa avete fatto.
— Sciocchezze, — disse Giannino.
— E adesso ce l’ha ancora quel callo?
Giannino chinò il capo, imbronciato. — Ne avrà degli altri.
Stefano sorrise. — Non capisco, — disse dopo un lungo silenzio, — di che cosa vi dobbiate vergognare. La vostra fidanzata non ha nulla da spartire con costei.
— Lo credo, — disse Giannino di scatto, — vi pare? Non mi volterei nemmeno indietro, se non fosse cosí. Ci conoscete, no? — rise in quel modo. — Nemmeno ci pensavo a quella serva.
— E allora?
— Allora mi secca di venire trattato come una fidanzata. Conosco abbastanza le donne da sapere il mio dovere e quando si vanno a trovare e quando no. Una sposa non è un’amante e ad ogni modo è una donna, e dovrebbe capirlo.
— Però le volevate dare un cane, — disse Stefano.
— Che intendete? Non farmi vedere?... Certamente! Non spettava a lei mettermi su la cognata che l’avvertisse.
— La cognata sarebbe Foschina?
— Toschina.
Dopo un poco Stefano cominciò a ridere. Un riso agro, a denti stretti, che per nasconderlo si morse il labbro. Pensava a Concia accovacciata sulle pietre, nuda e bruna; a una Carmela accovacciata sulle pietre, bianchissima e smorfiosa di ribrezzo. S’accorse degli occhi di Giannino e balbettò a casaccio:
— Se la bambina vi dà noia, perché non dite alla vostra fidanzata che, da ragazzo, avete visto le natiche a Concia? Le caccerebbero di casa.
— Voi non ci conoscete, — disse Giannino. — Il rispetto del vecchio Spanò tiene unita la casa. Siamo tutti gelosi per Concia.
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