Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/53







Già prima, in uno di quegli incontri mattutini, Stefano le aveva detto: — Sai che un giorno andrò via. Sarebbe prudente che non ti affezionassi troppo.

— Non lo so, non lo so perché faccio cosí, — aveva detto Elena dibattendosi; ma poi, riprendendosi e scrutandolo: — Tu saresti contento — . Quando parlava piú accorata, Elena usava una voce cupamente stridula, rustica e casalinga come la sua sottana di panno buttata sulla sedia. Aveva qualche pelo sul labbro, e i capelli attergati e sciatti della massaia che sotto l’alba gira per la cucina in camicia.

Ma Stefano era incontentabile. Piú dello stridore di quella voce, lo indisponeva il sorriso sensuale e beato che invadeva per qualche attimo quelle labbra e quelle palpebre inchiodate sul guanciale.

— Non bisogna guardare, — balbettò Elena una volta.

— Bisogna guardare, per conoscersi.

Nella mattina, le imposte lasciavano filtrare una penombra.

— Basta volersi bene, — disse Elena nel silenzio, — e io ti rispetto come avessimo lo stesso sangue. Tu sai tante cose piú di me — non posso pretendere — ma vorrei essere la tua mamma. Sta’ cosí, non dire niente, sta’ buono. Quando vuoi essere affettuoso, sei capace.

Stefano stava disteso occhi chiusi e poneva quelle parole lente sulle labbra di Concia e sfiorando il braccio di Elena pensava a quello bruno di Concia.

Questo era accaduto quando fuori era ancora estate. Ma la sera di quel giorno dell’armadio, aveva cominciato a piovere, mentre


49