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XXII.

Scrissi a Gina che stesse tranquilla perché le cose s’aggiustavano. Che poveretti i nostri amici non ci avevano piú colpa di me e consolasse Dorina. Che non si può tenere dentro chi è innocente.

La sera battevano i ferri, e pensavo a quei quattro. Chi sa se anche loro dicevano: «Vanno da Palbo». Quando il frastuono cominciava mi mettevo all’inferriata e ascoltavo gli squilli passare di cella e dicevo: «Ora tocca a Carletto, ora tocca a Giulianella». Non potevo pensare che anche lei fosse passata in questura, che qualcuno l’avesse battuta. Figurarsi se fosse per Scarpa, dicevo. Mi ricordai di quella volta di Luciano e lo capii. Non sono cose che si dicono a nessuno.

Poveretto Luciano, tornarci in quel modo. Capivo adesso che cos’è stare in prigione. Pensi sempre a qualcosa e non osi pensarlo. Le risposte le hai date, le botte le hai prese, che cos’altro ti tengono a fare?

Mattino e sera mi mettevo all’inferriata. M’era tornato in mente Milo e quelle corse sopra i camion. Girare adesso sulle strade e fermarsi dovunque, doveva esser bello. Di tutto quanto il mondo libero godevo quel pezzetto di sereno. Certe volte pensavo «Lasciatemi uscire. Faccio un giro sul Tevere e ritorno. Lo giuro». Dicevo sul serio. Ero dentro da un mese. Come siamo, pensavo, so che i compagni sono fuori e non mi basta. Stavo peggio la sera. La mattina dicevo: «Sarà per quest’oggi».

E invece successe di sera, nel battere i ferri. Entran le guardie, fan la loro suonatina; poi il capo mi dice: — Prendete la roba.

Non capivo. — Prendete, — mi dice, — fate la roba e si esce fuori a libertà.

Al registro mi diedero a un tale in borghese, una faccia da napoli, che mi disse: — Venite — . Andammo in questura in tassí.


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