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bisogno di roba e di soldi. Nella bottega andava bene e pregassi il Signore. «Ti penso sempre» concludeva.
Sentivo sempre quella mano sulla spalla. Uno mi disse: — Vuoi fumare?
— Noi vogliamo sapere, — riprese quell’altro, — quel che facevano il Maggiore e quella gente. Non ti hanno mai detto di trovarti con loro, di portare dei pacchi, di andare in campagna?
— No.
— Quei tuoi amici sono tutti sovversivi. Lo sapevi?
— No.
— Di che cosa parlavi con loro?
— Di sciocchezze.
— Eppure Giulianella ti accusa di averli aiutati. Sei iscritto al partito fascista?
— No.
Si mise a ridere. Quella mano mi strinse la spalla.
— Quest’è la prima verità che hai detto. Ti abbiamo preso appena a tempo. Fottevi soltanto Giulianella o anche l’altra?
Mi arrivò un altro pugno. — Perché Giulianella la fotteva anche il Maggiore, non lo sai? Te l’ha pagato Giulianella il viaggio a Roma?
Dissi: — Giulianella cosa c’entra?
— Lo sai tu.
Quando si furono sfogati, scrissero tutto sopra un foglio. Me lo lessero e dissero: — Firma — . Gli diedi ancora un’altra occhiata: c’era soltanto dove avevo conosciuto questo e quello. Dei compagni, nessuno. Firmai.
Tornammo in tassí alla Lungara. Mi ero giurato «Per la strada guardo Roma e la gente e i caffè», ma anche stavolta ci pensai soltanto in cella. «Non han preso i compagni, — dicevo, — che bestie».
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