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quei pacchi, che lei non c’entrava. «Carogne, — pensavo, — da lei sono stati».

— Da dove viene? — dissi piano.

— Devi dircelo tu.

Io pensavo a Carletto e alla gobba. L’avrei preso a calci.

— Io non leggo nei libri, — dissi. — Leggo appena il giornale.

Uno disse: — Al teatro ci vai?

— Quando càpita, — dissi.

— La conosci Giulianella?

— Conosco Carletto. Uno gobbo. Ho suonato con lui che cantava.

— Quando e dove?

Allora parlai di Lubrani. Parlai di Torino. Ci diedi dentro fin che dissero di smetterla.

— Lo conosci il Maggiore?

— Il Maggiore?

Dissi che andavo all’Argentina per cenare con Carletto e sua moglie. Portavo a volte la chitarra. Lavoravo di giorno e la sera cenavo. Di molta gente non sapevo il nome. Quel Maggiore era un tale che viveva in platea.

— Parla chiaro, — mi dissero, — com’è che sei venuto a Roma? Sei ciclista o che cosa?

Feci una faccia e li guardai.

— Non ci stavi piú bene a Torino?

Li guardai.

— Chi ti ha dato qud libro?

— Non è mio.

— Te l’ha dato il Maggiore?

— Non sapevo di averlo.

Allora un tale mi pigliò per una spalla. Mi arrivò un pugno sull’orecchio. Quello seduto continuava: — Lo sapevi?

— Mai visto, — risposi guardandolo.

Sentivo sempre quella mano sulla spalla. L’altro mi disse, e aprí un cassetto: — C’è una lettera.

Me la diede. Era Gina.

— Puoi leggere, — disse.

— Lei non c’entra, — gli dissi.

Gina scriveva che sperava di vedermi presto presto e se avevo


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