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— Si scrive alle donne?

— Potete fare domandina al direttore.

— Faccio conto di andarmene.

Tutte le sere l’indomani era quel giorno. C’eran cinque cancelli fra me e la Lungara. Toccava a loro aprirli tutti, uno per uno. M’immaginavo che si fossero sbagliati; che mi avessero preso per un altro — per Carletto magari: un bel momento mi chiamavano e m’aprivano i cancelli. Cominciavo a fissarmi su sciocchezze cosí: un negozio di frutta, un bicchiere di birra. Cosa avrei dato per avere un lavoraccio anche sporco — il facchino magari, gli altiforni di Cogne, il marinaio che gli tocca la burrasca. Poter muovermi, dire la mia, non pensar sempre alle domande e alle risposte. Mi ricordavo la ragazza spettinata sul ponte, m’inventavo che cosa facesse in quell’ora, a che cosa pensava, di dove veniva. Mi mettevo su un passaggio, il Flaminio, il Tritone — e vedevo la gente, conoscevo le facce, mi pareva di aver sempre sprecato i momenti piú belli. «Proprio a Roma doveva toccarmi» dicevo. Facevo conto di esser come un ammalato, di aspettare il dottore, di non potere piú levarmi dalla branda. Suonavo muovendo le dita a memoria; inventavo dei pezzi. Certi giorni, pensavo di essere solo un ragazzo, uno scemo; di aver fatto soltanto sciocchezze e che tutti ridessero. Ma c’era Gina che sicuro non rideva, e pensavo al negozio, a Solino, ai cantieri del ponte. «Sono un povero scemo, — dicevo, — era meglio suonar la chitarra e restare dov’ero».

Eppure il giorno che mi presero e portarono in questura, diedi prima un’occhiata alla cella. M’aveva preso un batticuore da non dire. Piú che paura era una voglia di star solo e non vederli. Traversammo i cancelli, ci fermammo al registro; dalle finestre si vedevano le piante sopra il Tevere. Uscendo mi tennero il braccio. Io mi accorsi di fare quella faccia svogliata.

In questura aspettavano dietro un tavolo e parlarono loro. Prima il nome e cognome, e mio padre, e la classe e se avevo condanne. Poi di dove venivo e che cosa facevo e da quando ero a Roma. Poi dov’è che passavo la sera e cos’era quel libro.

Me lo diedero. Il libro del Biondo.

«Anche Gina» pensai. Stavo per dire ch’era roba del negozio, ma mi tenni. Feci passare qualche foglio e leggevo, e pensavo che Gina non poteva esser dentro, che mi aveva mandato


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