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XXI.

Mi presero a letto e in mezz’ora buttarono in aria la casa. La Marina mi faceva degli occhi cosí. Io credevo che fosse per la storia di Scarpa e pensavo a Gina con gran voglia di ridere. «Meno male» dicevo. Poi scendemmo. La porta di Carletto era chiusa.

Pensai: «Quel merlo di Carletto se la dorme. Chi sa che spavento. Scapperanno in campagna». Ero tanto contento che Scarpa non fosse piú a Roma, che l’automobile arrivò sulla Lungara e scendemmo e mi misero dentro, e non avevo piú dato un’occhiata alla strada o alle nuvole. Ci pensai troppo tardi. Mi ricordai poi nella cella che sul ponte avevo visto una ragazza spettinata. Ci doveva esser vento, in quell’ora vuota. Dalla cella vedevo soltanto dei muri e il sereno.

Quando le guardie mi lasciarono tranquillo nella cella, mi doleva la bocca. Mi accorsi allora che per strada, negli uffici, sui registri, non avevo mai smesso la faccia da ridere, la smorfia di chi non gli succede niente di nuovo. Mi aspettavo dei pugni, del sangue, qualcosa. Invece tutti mi guardavano annoiati, come fosse al caffè. L’ultimo venne ch’ero in cella, aprí la spia e mi chiamò. «È la volta, — pensai, — me le ficca». Mi diede invece la gavetta, l’asciugamano, le posate e tutto il resto. Fui cosí stupido da chiedergli perché m’avevano preso. Quello nemmeno mi rispose e chiuse il buco.

Mi passò la giornata cosí, senza storie. C’era la branda, e mi distesi sulla branda. Stando disteso, vedevo un po’ di cielo. La finestra era tutta inferriata e listelli di vetro per storto che non lasciavano guardare nel cortile. «Non si sta mica male, — pensavo, basterebbe sapere se dura». Ogni tanto qualcuno picchiava alla


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