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XX.

Siamo tutti vigliacchi. Scomparso lui, mi parve d’essere sollevato. Ero sicuro che quell’oste non sapeva dove stavo e dissi a Gina: — Vuoi che andiamo a teatro?

Lei mi guardò, con l’aria allegra.

Carletto, le donne, Luciano e i colleghi cenavano vicino all’Argentina. Per arrivarci feci un giro e intravidi la bettola di quella notte. Era chiusa e sprangata; la gente passava senza far caso. In quanti posti, pensavo, noi si passa e c’è stata la forza e nessuno lo sa. Forse un bel giorno, chissà quando, qualcuno potrà dirle tutte.

La rivista era il solito; da tanto tempo non ne avevo piú vedute. A Torino, per via delle gambe, non c’ero piú andato; e neanche a Roma non ci avevo mai pensato. Mi pareva che a Roma nessuno ne avesse bisogno. Non so perché, con quei fascisti dappertutto e col papa e con piazza Venezia, pensavo che non fosse permesso. Altra gente, dicevo, altre usanze. Ma poi sul Lido avevo visto quei costumi in due pezzi. Dove c’è l’uomo, c’è la donna che ci sta. Per pigliarsi bel tempo sono tutti gli stessi.

Stavolta usciva a fare il ballo perfino una negra. Era un donnone nudo nudo, che saltava come un grillo. «Questa va bene per Lubrani, — dissi subito, — chi sa se è lui che l’ha arruolata». Ma le negre non sono mai nude abbastanza, è per questo che fanno quegli urli e quei salti. Hanno una voce che spaventa e tocca il sangue. Ai romani piaceva e volevano il bis.

Poi vedemmo Carletto, in platea. Gina gli disse che aspettava di sentirlo. Lui ci guardò con l’aria tonta e ci spiegò che la scrit-


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