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— Come mangiano, gridano e bevono a Roma, — disse Scarpa, — è cosí?

Gli chiesi allora se capiva sempre tutto.

Mi rispose che è come un amico che si è innamorato. Si sa già prima quel che dice. Tutti a suo tempo siamo stati innamorati.

— Pablo non è di quest’idea, — disse Gina.

C’era qualcosa nella voce che ci mise in allegria. — Sono storie,

— fa Scarpa, — Pablo è un bravo compagno.

Poi ci disse di quando era stato in prigione qui a Roma. — Dieci anni fa. Ne avevo venti. Allora facevo l’anarchico. Mi han messo fuori perché han detto «questo è fesso».

— Come trattano dentro? — gli chiesi.

— Non è dentro che trattano male. Sono la gente che sta fuori. Ero anch’io innamorato, e in un mese mi avevano già messe le corna.

Gina gli disse: — Sarà vero?

— È una vita cosí. Va sempre male se vai dentro. C’è un’altra cosa che succede. A starci un pezzo ti dimentichi la gente. Esci fuori e ti accorgi che il mondo viveva lo stesso. Si capisce che cosa vuol dire esser morti.

— Meglio morire, — disse Gina.

Uscimmo fuori dalle case e si vedeva mezza Roma.

Dissi a Scarpa: — Domani dovevi partire.

— Brutta cosa, — mi disse. — Poter fermarsi solamente quando sai che sei cercato.

Tornammo indietro e mandai Gina nella stanza della vecchia. Noi rientrammo in negozio e per metà della nottata si discusse. Scappare o cascarci, diceva, era uguale. Quello che importa è che ne restino degli altri. Ma viene un momento, diceva, che vorresti esser preso e non muoverti piú.

— Qui da voi non è niente, — mi disse. Mi raccontò della Germania e delle carceri di Spagna. Mentre parlava mi venivano i sudori. — Abbiamo contro tutto il mondo, — mi diceva. — Non farti illusioni. È questo che qui non volete capire. Difendono il piatto e la tasca, i borghesi. Sono pronti a far fuori metà della terra, a scannare i bambini, pur di non perdere la greppia e lo staffile. Arriveranno anche in Italia, sta’ sicuro. Parleranno magari di Dio o della mamma.


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