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XIX.

La notte andammo alla riunione in una bettola. Per non farci fermare al ritorno, si durò fino all’alba. Gino Scarpa scese con gli altri in una specie di cantina, che metteva in un’altra cantina, di dove in caso si usciva. Io restai con Giuseppe nella stanza di sopra. Mi ero portata la chitarra ma, se avessi suonato, a quell’ora una ronda poteva sentirci. Avevo sonno, mi pesava l’altra notte. Giuseppe saliva e scendeva le scale, e ogni volta mi dava una voce. — Statti su, — mi diceva, — pensa che colpo, se ci prendono.

Mi tenne sveglio il batticuore, questo sí. Sapevo che in quella cantina i compagni erano molti e che Scarpa da solo valeva per tutti. Non per niente discussero tanto. Dissi a Giuseppe d’informarsi di Torino. Fu solamente sotto l’alba, quando si sentí «Hanno finito» e il padrone portò del caffè anche a noialtri, che Giuseppe mi fece, tranquillo: — Hai ragione. Quel tuo amico era un compagno.

Di piú non sapeva, o non volle parlare. Qualcuno intanto dei piú giovani, che andavano al lavoro, uscí da una parte o dall’altra. Il padrone teneva socchiuso, e per finta scopava. Degli altri non vidi nessuno.

Quando partii con Gino Scarpa era già luce. M’ero accorto, dagli ultimi discorsi, che la riunione non l’aveva contentato. Capii che si doveva farne un’altra.

Traversammo i giardini del Pincio, nel primo sole. Camminavo intontito, come si nuota controcorrente. Se non ci fosse stato Scarpa, mi buttavo su una panchina. — Che ti pare? — lui mi disse. — Si fa colazione? Sarebbe bello mangiar qui sotto le piante.


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