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Da Giuseppe tornai con delle camere d’aria a tracolla. Passai sotto alla casa del vecchio. Levai la testa al quinto piano pedalando, e pensavo che a Roma di case cosí ce n’era tante. Bastava un rosso per portone, erano molti. Poi c’eran quelli carcerati. Quanti in tutto?

Giuseppe venne con me all’osteria a bere un mezzo. Si parlò della Spagna e di tutto. Io gli chiesi del giro e che cosa ne pensava. Lui mi disse: — Chi sono? — Gente cosí, gli raccontai, che non sa andare fino in fondo. Giuseppe allora mi spiegò che tutto serve, anche i signori. — Non guardare alle mani, — mi disse, — non quello che vogliono conta ma quello che fanno — . Io gli spiegai che non capivo un disgraziato come noi che si mettesse coi padroni. — È per questo che si fa propaganda, — mi disse.

Questa volta m’imprestò dei fogli proibiti, e un libriccino che sembrava il catechismo. Il giorno dopo, discutendo con Luciano, lui mi dice: — Chi t’insegna le cose che sai? Da quando in qua leggi i giornali? — Avevo letto quella stampa nella notte, e già fruttava. Capii quel giorno che la stampa non serviva solamente a minacciare ma a convincere. Prima d’allora non me l’ero mai sognato.

Dopo cena provai con Gina nella stanza. Girava in tuta e mi ascoltò asciugando i piatti. Le lessi tutto il catechismo. Lei lasciò che finissi e poi venne sul letto e si mise distesa.

— Queste cose, — mi disse, — le faranno o le dicono?

— Ci sono dei posti che le hanno già fatte. Ora tocca a noialtri.

Lei fumava e guardava la volta. — Com’è difficile, Pablo. Fanno paura, queste cose. E se ti prendono?

— Toccaferro, — le dissi, e ridevo.

— Per stare meglio tutti quanti, — disse lei, — cominciate a star peggio voialtri. Férmati qui, — mi disse brusca e mi abbracciò, — non andartene ancora.

Tutte le volte che leggevo o che parlavo, lei riusciva a portarmi nel letto. L’aveva capita da un pezzo e sapeva giocarci. Anche stavolta lasciai fare e mi fermai.

Feci bene perché a metà sera toccarono l’uscio. Era Giuseppe che veniva a continuare quel discorso.


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