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XVI.

Poi Luciano uscí fuori e non gli fecero niente; tornò Carletto vergognoso, e ci trovammo in trattoria; eran tutti gli stessi. Luciano disse che picchiato non l’avevano; ma lo disse cosí per non darsi importanza. Giulianella mi disse piú tardi che aveva veduto la mamma di un altro ritirare dal vestiario una camicia insanguinata.

— Mi hanno preso per fare un confronto, — ci disse Luciano. È una storia di quando lavoravo a Torino. Conoscevo una bella ragazza che faceva la vita. Un mese fa mi viene in mente di scriverle «Baci, Luciano». È bastato. Lei era già dentro.

— Non ti avevano preso per via di quelli del caffè? — dissi.

— Credevo anch’io. Invece no. Quella ragazza è comunista. Quando mi ha visto ha riso in faccia ai questurini. «Quello?» ha detto. «Quello canta al Nirvana». Non sapeva cos’ero e in questo modo mi ha salvato. Sai, stai fresco se passi per rosso.

— Ma tu non sei mica rosso? — gli disse Dorina.

Erano sempre gli stessi. Carletto taceva. Fabrizio disse ch’era meglio non vederci per un po’. — Chi sta bene sei tu, — mi disse Giulianella, — te la fumi tranquillo. Smettiamola e andiamo a ballare.

Passammo la sera sul Tevere ballando noi due. Feci ballare anche Dorina. Carletto era moscio — sembrava che lui fosse uscito dal carcere. Stava attaccato al suo Luciano e gli parlava sottovoce. Non rideva stasera. — Ti ricordi quel sogno dei gatti? — gli dissi.

— Quale sogno?

Faceva l’uomo preoccupato. Quasi quasi gli chiedevo come se


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