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delle lettere, perfino dei pezzi di musica, e delle cose scritte a macchina ma forse era soltanto un copione. Mentre parlava le vedevo gli occhi rossi. Non se la prese col fratello, non se la prese con nessuno. Disse soltanto ch’era certa che l’avrebbero picchiato. — Quando mettono dentro un signore, — mi disse, — lo trattano bene. Noialtri invece siamo come i comunisti.

— Magari lo siamo, — le dissi.

Lei rise appena, e mi chiese se venivo al teatro. Bisognava spiegare al padrone che mancavano in tre.

— Ho questi libri. Vado a casa. Ci vediamo.

Pensai per strada se era vero che picchiavano soltanto chi lavora. Sta’ a vedere che temono piú noi che i signori. Cominciavo a capirci qualcosa nel gioco.

Carletto e Dorina, seduti sul letto, discutevano ancora. Gina aspettava sulla porta e aveva avuto tanta testa da mandar Pippo in commissioni.

— Ne son successe delle cose, — le dissi all’orecchio passando.

Lei non rispose e piegò il capo, tutta rossa, alla mia faccia.

Perché Carletto la capisse che doveva andarsene, fu necessario che vedesse che non c’erano altri letti. Io gli dissi che, tutto sommato, quei fogli non c’erano, che doveva star calmo, che Luciano era in gamba. A combinare con Fabrizio andò Dorina, e Carletto mangiò due bocconi là dietro. Dissi a Gina di chiudere e la presi con me. Andammo insieme all’osteria di fronte.

Verso sera arrivarono Dorina e Fabrizio, e avevan visto molta gente e dappertutto era tranquillo. Tutte le volte che toccavano la porta, al finestrino era Carletto che correva. Gli spiegammo che andare in campagna era inutile: se la questura lo cercava, lo pigliava anche là. Io capii che Carletto l’aveva capita ma non voleva dare indietro per puntiglio. Partí alla fine con Dorina e col fagotto, e Fabrizio tornò al suo teatro.

Cosí passarono dei giorni e non si vide piú nessuno. Tutte le sere, quando Pippo se ne andava, gli occhi di Gina mi aspettavano. Prima parlava brusca e asciutta; in quel momento mi guardava disperata. Se le andavo vicino e dicevo qualcosa, mi pigliava le mani. Mi fermai qualche volta la notte.

Era giugno, e pensare a chi stava in prigione faceva una pena. Perché loro e non noi? Non so perché, m’ero convinto che li pic-


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