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XIV.
Adesso mangiavo dall’oste là in faccia, e vedevo il negozio. Mangiavo al fresco, sotto gli alberi, e sul mezzodí sentivo i muratori. Arrivavano sporchi di calce e comandavano un litro.
Mai che la Bionda mi dicesse di mangiare con lei nella stanza. Si capiva che a starsene sola ci pativa; alle volte veniva sull’uscio e fumava. Con quella blusa a quadretti sembrava un ragazzo. Scura com’era, non pigliava mai sole. C’erano giorni che provavo a figurarmi cose vecchie: che quella non fosse la Bionda e che stessimo insieme. Ero rimasto come quando si guarisce dalla febbre — bastava un niente a toccarmi nel sangue. Ma la sera ero contento di andarmene.
Con Dorina e Carletto mangiavo cena, e la chitarra la tenevo addirittura in trattoria. Veniva sempre l’occasione di suonare gli stornelli e Carletto sapeva cantarli come un romano. Ci capitavano ragazze — le Lilí che stanno a Roma — tutte in coppietta col loro vigliacco. Io giravo là tra loro felice e scontento, ma sapevo che cos’era e bevevo su tutto. Rispuntò Giulianella, la sorella di Luciano, e facemmo una notte cantando per le strade. Combinammo in tre o quattro di andare a fare il bagno sul Lido. Poi nessuno aveva belle mutandine, e andammo invece nei Castelli a far merenda. Anche quelle, che terre. Mai che si veda una vigna e non hanno che vino. Salimmo a Rocca di Papa, e si rideva e si mangiava.
Una volta scrissi a casa per dire che m’ero aggiustato. Quando arrivò la loro lettera col bollo di Torino, la tenni in tasca e la rilessi molte volte. «Tua sorella Carlotta» c’era scritto. Non mi
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