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— Preferirei la pioggia e il vento. Porterebbero le starne.
Stefano avrebbe voluto sedersi e lasciare che l’alba sorgesse dall’immobilità: vedere lo stesso cielo, gli stessi rami, lo stesso declivio impallidire e arrossare. Camminando, la scena mutava; e non era piú l’alba a sgorgare dalle cose, ma le cose a succedersi. Solamente da una finestra o da una soglia Stefano amava goder l’aria aperta.
— Catalano, fumiamo una volta.
Mentre Stefano accendeva, Giannino esaminava le vette delle piante. Un cinguettio solitario saliva dal folto.
Stefano disse: — Siete sicuro. Catalano, che con me ci fosse una donna?
Giannino gli volse la faccia contratta, col dito sul labbro. Poi sorrise in risposta. Stefano gettò il cerino nell’erba bagnata e cercò da sedersi.
Finalmente, Giannino sparò. Sparò fulmineamente al cielo, al mattino, alla tenebra che fuggiva, e il silenzio che segui parve solare: l’alto silenzio del meriggio trasparente sulla campagna immota.
Uscirono dalla radura, e Stefano stesso ora precedeva tendendo l’orecchio.
— Andiamo sulla collina, — disse Giannino, — ci sarà qualche quaglia.
Salirono il declivio nudo, giallastro di stoppia. C’erano molti sassi, e la vetta tonda era piú lontana che alta. Stefano osservava sui ciglioni certi lunghi steli violacei palpitanti.
— Non siete mai venuto quassú? — disse Giannino. — Questa è la nostra terra. Non dà nemmeno selvaggina.
— Avete il mare che dà pesce.
— Abbiamo quaglie che nude son belle. Quella è l’unica caccia che ci può appassionare.
— Forse è per questo che non fate altro, — rispose Stefano, ansante.
— Volete sparare? Là, dietro quel sasso: c’è una quaglia. Tirate.
Stefano malsicuro non vedeva dove, ma Giannino gli posò il fucile tra le mani e lo fece puntare, accostandogli la gota alla sua.
Qualcosa infatti volò via, alla detonazione. — Non è il mio mestiere, — disse Stefano.
Giannino gli tolse il fucile, e sparò un altro colpo. — L’ho colta, — disse. — L’avevate snidata.
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