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Stefano pensò molto a Concia e la vide selvatica, la vide inafferrabile, disposta a cedersi una volta e poi fuggire; mentre a un uomo come Giannino — cartuccera e denti bianchi nella penombra — , era forse asservita e devota, come l’amante di un bandito.
Giannino gli disse ridendo che si scusava di averlo disturbato la sera prima.
— Perché? — si stupí Stefano.
— Non per voi, ingegnere, ma so che in questi casi le donne fanno il diavolo e minacciano d’andarsene. Non vorrei avervi disturbato.
Veniva un fiato tiepido dal mare, che smorzava le parole e alimentava una dolcezza inesprimibile. Tutto era vago e tiepido e, pensando che a quell’ora lo coglievano le angosce, Stefano sorrise e disse piano:
— Non mi avete disturbato.
Passarono sotto la casa di Concia, dalla parte del mare. La casa era pallida e chiusa, in attesa del giorno, che l’avrebbe ridestata forse per prima, di tutta la marina. Senza fermarsi, Giannino piegò bruscamente a sinistra. — Prendiamo lo stradale, — disse. — Risaliremo la fiumara. Vi va?
Sull’alto del terrapieno tremolavano fili d’erba. Stefano cominciò a intravedere la cacciatora grigia di Giannino, come gli era apparsa un momento sulla soglia della stanza illuminata. Inerpicandosi dietro a lui, indovinò pure le scarpacce a mezza gamba, dov’erano inzeppati i calzoni.
— Mi sono vestito in giacchetta, come ieri, — disse poco dopo.
— L’essenziale è non sporcarsi.
Ai primi chiarori camminavano ancora verso l’interno, sotto i salici del greto. Il fucile, trasversale alla schiena di Giannino, oscillava ai suoi passi. C’erano nubi e fiamme rosee alla rinfusa, sul loro capo.
— Brutta stagione per la caccia, — disse Giannino senza voltarsi.
— Non è piú estate e non è ancora autunno. Troveremo qualche merlo o qualche quaglia.
— Per me è lo stesso. Vi starò a vedere.
Erano fra due poggi dove Stefano non era stato mai. Le poche piante e i cespugli cominciavano a uscire dall’ombra. La vetta nuda di un poggio si schiariva in un cielo sereno.
— È ancora estate, — disse Stefano.
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