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gazze e le piacevano chitarre e giovanotti. Mi misi a letto e fui contento di lasciare che gli altri si facessero festa.
Mi svegliai l’indomani ai rumori della strada, ma la casa era zitta e faceva giorno da un pezzo. M’accorsi subito che l’aria era diversa, e sembrava piú chiara e piú asciutta — era come il sereno di luglio in un giorno di gennaio. — Che cos’è quest’odore? — dissi alla vecchia che girava. — È il caffè, — disse lei, — ne volete una tazza? — Ma non era soltanto il caffè; quando uscii lo sapevo. Sulla piazza, davanti alle due statue del ponte, c’era una squadra di stradini che bollivano il catrame. «Anche Roma è un paese civile» pensai.
Ci sistemammo che dormivo dalla vecchia, la Marina, e mi vedevo con Carletto tutto il giorno e mangiavo con loro. Dorina era ancora piú grassa della foto di Genova: sembrava una mamma, la mamma di Carletto, ma era giovane. Girava per casa in vestaglia e gridava alle figlie — ne aveva due, due bambine, eran le figlie di un socialista ch’era dentro. Caso strano, Dorina che sapeva cantare e che aveva cantato, non parlava dell’arte. Trattava me e Carletto come fossimo dei poco di buono, dei perditempo e giocoloni, ma con me disse subito ch’ero stato un tesoro, non ci pensassi e andassi a spasso. Non mi chiese che cosa avrei fatto per vivere. Le offrii dei soldi e non li volle. Disse a Carletto che al teatro lo aspettavano, e Carletto ci andò e fu accettato; io pensavo che quando una donna ti prende per figlio, o è già sposata o tu sei gobbo. Come facesse a divertircisi Carletto, non so. Era proprio un ragazzo, Carletto, e ghignava. Quando gli dissi che tutto capivo ma non rubare la ragazza a chi è in prigione, mi rispose che una donna si ruba sempre a qualcuno e bisogna sbrigarsi, perché poi viene il giorno che la rubano a te. — Ma è in prigione, — gli dissi. — Si sa già, — disse lui. — Chi va in prigione lo sa che la donna si spassa. Non puoi vivere a Roma senza farci l’amore.
Uscimmo insieme con Dorina e andammo a cena in trattoria. A lei piaceva accompagnare il suo Carletto al Varietà; era un piccolo palco in un cinema del centro, e la gente intorno gridava e parlava, come fosse la piazza del paese. Carletto finito il suo numero tornava da noi. Si mangiava insalate e frittelle, quel vino giallo non mi piacque il primo giorno, ma poi ci feci la bocca e bevevo e cianciavo. — È un destino, — dicevo a Dorina, — che dappertutto dove vado vivo sempre all’osteria.
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