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Io pensavo: «Chi sa chi sta peggio, dei due», e gli diedi una cicca e toccavo se avessi una faccia cosí.
— Mai piú visto nessuno? — mi chiese.
— Nessuno.
Feci venire un uovo al burro e glielo offrii. — Tu non mangi? — mi disse, — una volta mangiavi.
Quella sera mi prese una brutta allegria. Era Carletto che mi aveva aperto gli occhi. Mangiai con lui, lo feci bere, ci toccammo la gobba. — Sono contento che Lubrani te l’ha fatta, — gli dicevo.
— E pensare che a Roma Dorina mi aspetta, — mi disse. — Là si mangia.
— Sei sicuro che aspetta?
— Non si sa mai, — disse ridendo, — non si sa.
Da quella sera ci vedemmo qualche volta. Carletto dormiva in un buco nel teatro, col custode notturno. — Lubrani mi passa l’alloggio, — mi disse. — Ecco una cosa che Lilí non ha mai fatto.
— L’hai piú vista?
— Ho venduto il paltò.
Mantenerlo cosí mi sfogava. Andavamo a mangiare e pagavo. Mi pareva di averci una donna. — I primi soldi che guadagni, — gli dicevo, — tu prendi il treno e scappi a Roma. Mi dispiace.
— Se torno a Roma ti ripago.
— Scemo. Chi parla di pagare?
Tanto fece, che venne a trovarmi in negozio. Carlottina lo prese in disgrazia e lo guardava inferocita. Lui le disse: — Chi sa se cantassimo insieme — . Volle vedere la chitarra e la provò. — Facciamo un trio, noi cantiamo e Pablo suona. Giriamo le piazze e lei sporge il cappello — . La seccò per un pezzo e Carlottina brontolava. Stava per dirgli: «Brutto gobbo». Allora presi la chitarra e uscii con lui.
Carletto trovò in quelle sere da cantare in un cine. Era a casa del diavolo, oltre Dora un bel pezzo. — Me ne intendo, — mi disse, — è tale e quale un gran teatro — . Qui gli serviva piú la gobba che la voce. Cantava la storia di un ebreo ch’era incinto di schiena e, come alle donne gli cresce la pancia, a lui cresceva quella gobba a vista d’occhio. Poi sulla gobba due ragazze gli piantavano una fiamma tricolore, cantavano «Va’ fuori d’Italia» e gli davano calci. La gente rideva e fischiava.
Lavorò qualche sera cosí, guadagnò venti lire, poi lo misero
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