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Fece tutto la bionda, fu lei che mi chiuse il paltò. Quando Milo mi spinse sul tram, non parlavo. — E domani si parte, — mi disse, — tu guidi.
Per un mese fui sempre ubriaco. «Come Amelio, — pensavo, — mi ha fatto fuori come Amelio». Avevo in mente che bevendo mi sarei voltato il sangue. All’idea che finita una sbronza pensavo già all’altra, mi veniva da piangere. Milo mi disse: — Fatti furbo, — e le giornate s’allungavano. Stare ubriaco tutto il tempo era fatica. — Siamo in marzo, — mi disse, — si lavora di gusto. Tu cos’hai per la testa? — Io non parlavo e lo seguivo a denti stretti.
In quel mese viaggiammo a Biella e Novara; tornammo a Casale; non so quel che feci. Mi rimase soltanto che rincasavo la mattina, che dormivo al caffè, che correvo sopra il camion. Una volta saltai su una ruota già in marcia, e caddi a terra sull’asfalto e mi sembrò di essermi ucciso. Fu come un pugno in mezzo agli occhi e per un attimo credetti di guarire. Milo gridava e mi chiamava: io gli feci una faccia da scemo e dicevo felice: — Non ero ubriaco. Sto bene cosí.
Mi ricordo che in tutto quel tempo mangiai come un lupo. Mangiavo in casa, mangiavo sul camion, mangiavo a Casale e Novara. Solamente mangiando quel male s’assopiva. Ma cosí mi facevo piú sangue e soffrivo di piú. Tutte le forze le mettevo in quel far sangue.
Milo diceva che dovevo dar l’esame di patente e diventare camionista. Non volli saperne. Guadagnavo qualcosa cosí di straforo, l’officina l’avevo disertata, non avevo fermezza per far di piú. Nel caffè degli autisti giocavo: tutte le notti, se non era la chitarra, era il tresette; giocai secco e ci persi dei soldi. Anche in questo, per riuscire ci voleva passione; io pensavo a tutt’altro; andai piano. Milo diceva: — Tu hai un vizio. Non porti le cose alla fine.
Ma le cose succedono loro. Carletto non era partito. Una sera di marzo mi sento chiamare per strada. Non aveva il paltò. — L’ho venduto, — mi disse, — sono di nuovo al pianterreno. E tu perché non mi saluti? — Camminando e parlando s’arrivò al Mascherino. Quando s’accorse ch’io volevo tirar dritto, disse col solito sogghigno: — Sta’ tranquillo. Non ci viene nessuno da un pezzo. Entrammo dentro. — Tu sei stato all’ospedale.
— Magari, — mi fece, — ma non prendono gente che mangia.
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