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XI.

Io adesso sapevo cos’era Linda per me. Mi bastava pensare a Lilí per capirlo. A Lilí che con tutti ci stava e pensava soltanto alle scarpe da ballo. Sarebbe stato cosí facile pigliarla e innamorarla. Sarebbe stato come un gioco. Non entrava nel sangue a nessuno, Lilí.

Senza nemmeno dirmi grazie, Linda si mise con Lubrani. Mi fece dire al Mascherino che doveva lavorare. Andai la sera al suo portone, la cercai, lei non c’era. La cercai l’indomani nel grande atelier. Le ragazze ridevano. Mi parlò in un salotto, irritata.

— Ne ho abbastanza, — diceva.

Poi se ne andò. Poi ritornò dentro il salotto. — Non capisci che qui lavoriamo, — mi disse. Si lasciò prendere le mani, restò ancora un momento.

— Ci vediamo stasera, se posso.

Io quella sera andai con Milo a Moncalieri. Mi portai la chitarra. Ci chiudemmo da un oste. — Niente ragazze, — dissi a Milo, — non ne bevo — . A mezzanotte, dalla strada, una bussò nella finestra. Volevano entrare a sentir la chitarra. — Pigliati guardia, — dissi a Milo. — Non sei storpio né gobbo, — mi disse, — perché? — Pigliati guardia — . Ero ubriaco. Allora Milo guardò fuori e disse: — Aspetta — . E ritornò dopo mezz’ora, che parlavo da solo.

«Come Amelio, — dicevo, — mi ha fatto fuori come Amelio». Milo mi disse: — C’è una bionda che ti cerca — . Mi portò in un boschetto di foglie marce. La bionda aspettava appoggiata a una pianta. Si scivolava sulle foglie e quella disse: — State dritti — . Non faceva un gran freddo e mi appoggiai contro la scorza. Milo gridò: — Trattalo bene.


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