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Si mise a ridere anche lui. — Non serve a niente, — disse a Linda. — La compagnia adesso è sciolta.

— È piú bella cosí che in teatro, — gli dissi, — non ho mai visto una rivista piú sintetica.

— Non la darete anche a Torino? — disse Linda.

Carletto ricominciò a bestemmiare. — Se stasera non vedo Lubrani, — ci disse, — parola mi butto nel Po.

Noi avevamo appuntamento con Lubrani lí davanti, ma capivo che Linda non voleva parlarne. — Mi ha fatto dire al botteghino che stasera verrà, — disse Carletto.

— Vuoi cenare con noi? — disse Linda.

Cosí mangiammo un uovo a testa, e Carletto guardava da tutte le parti e diceva: — Una volta qua dentro era acceso — . Gridò al barista: — Ce la porti una candela?

Poi disse a me: — Non vi conosco. Voi chi siete? Ah tu sei quello che suonava la chitarra? Non ti ha ancora fregato Lubrani?

— Faccio il meccanico, — gli dissi, — suono soltanto in chiave inglese.

Linda rideva e ci guardava. — Se il tempo che perdi alla fabbrica, lo mettessi a suonare davvero, ti saresti già fatto un bel nome.

Carletto disse: — È mica stupido l’amico. Vorrei avercelo un mestiere come il suo.

— Ma che nome, — le dissi. — Piace suonare per chi ti conosce. Se ti fai pagare, dimmi tu dov’è il bello.

— Fai bene, — disse allora Carletto. — Fai bene cosí.

Venne il momento che il caffè era tutto pieno. Mancava poco al Varietà e chi si alzava, chi andava e veniva. C’era chi salutava Carletto e voleva discorrergli. Andò al banco con loro.

Linda mi disse: — Andiamo via.

Non volevo.

— Andiamo via. Se li facciano loro i discorsi d’affari.

Disse qualcosa al cameriere e ce ne andammo.

Salimmo a piedi al Paradiso. — Lubrani verrà, se ne ha voglia, — mi disse. — Noi balliamo.

A metà sera ecco che arrivano Lubrani con Carletto. Sembravano in pace e Lubrani era allegro. Disse: — Basta ballare voi due. Facciamo baldoria — . Fece venire piatti freddi e vino nero. — Non avete cenato stasera, — ci dice. — Mi lasciate patire Carletto — . Car-


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