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IX.

Non mi riconobbe e discuteva col barista. Mi stupí perché vidi che non era piú cosí gobbo, ma la voce era quella e il suo fare da molla. Era piccolo, aveva il cappello.

Parlava forte e gli diceva che aveva sognato dei gatti e si muoveva come un gatto. Il barista rideva.

Linda entrò e non lo vide. — Lo sai chi c’è al banco? — le dissi.

— Oh è Carletto — . E restò li seduta e contenta, e tornò a guardar me.

— È mezz’ora che parla di gatti, — le dissi. — Ha sognato che Torino era piena di gatti e che non c’era piú nessuno, e per uscire bisognava fare il gatto e nascondersi e scappare sui tetti.

— Tu ne fai mai di questi sogni? — disse Linda.

— L’altra notte ho sognato Lilí.

— Bravo.

— Ma non era Lilí. Rassomigliava a mia sorella Carlottina. Andavamo per strada. Lei davanti. Io dicevo: «Se si volta, mi vede e mi scappa». Se si voltava, sapevo che avrei visto Lilí. Passavamo davanti a dei vicoli e avevo paura che sbucasse qualcuno. Poi correvo e Lilí mi correva davanti e sapevo che voleva fare il giro dei vicoli e pigliarmi alle spalle...

Ma Carletto ci aveva veduti. Piantò il banco e ci corse vicino. Linda gli disse: — Che bellezza — . Si rifecero festa. Anche noi due ci salutammo.

— Sono qui da due giorni, — ci disse Carletto, — e già quel porco me l’ha fatta. Di’ un po’ se riesco a lavorare.

— E Dorina è con te? — disse Linda.

— Tornata a Roma, — disse lui. — Non si può vivere. Là tutti


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