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— Non compro niente, — le risposi.
— Ma vi piace che siano sul corso. Fin che dura l’amica, magari non ne avete bisogno. Ma domani accettate anche loro — . Linda parlava in quel modo imbronciato che sembrava scherzasse. — Una volta ci andavi, lo so. Com’è che dicono? «Dammi la cicca»?
Le vedevo ogni sera tornando da stare con lei. Non era piú come gli altri anni che ci passavo proprio in mezzo e dicevo: «È una vita anche questa». Ci soffrivo. Passeggiavano in mezzo alla neve e il puntino rosso della sigaretta nascondeva la faccia.
— Una donna che fa quella vita è una stupida.
— Non si sa. Hanno bisogno.
— «Dammi la cicca», — disse Linda ridendo. — Sono stupide.
Io pensavo a quell’altra che con Milo avevamo trovato per strada. Tornavamo a Torino da un trasporto a Pianezza. S’era fatta pigliare sul camion e salendo ci aveva mostrato le gambe. — Guida tu, — disse Milo. Io guidai fino a casa. Loro due si schiacciavano nella cabina, si succhiavano il sangue. — Mi sbatti fuori, — gli diceva lei. Ma non era di quelle vestite da festa. Non era nemmeno dipinta. Sembrava una donna di casa, sui trenta o quaranta, con la faccia magrissima e quegli occhi affamati. — Il tuo amico non è come te, — gli disse. Io guidavo e pensavo: «Anche tu sarai stata la Linda di qualcuno».
Linda mi disse a Capodanno che avrebbe presto fatto un viaggio. Me lo disse ridendo, come si fa sulle carte. Quella sera per caso eravamo scampati a Lubrani, e cenavamo al Mascherino e avremmo fatto mezzanotte nella stanza di Linda. Era già inteso, e avevo voglia di ballare. Disse: — Un viaggio. C’è un viaggio per me.
Non lo sapeva ancora certo, ma comunque non piú di sei giorni di assenza. — Per affari, — mi fece ridendo. — Tu stai buono e vedrai quando torno.
Ma quella notte ci scordammo anche del viaggio. L’indomani al Mascherino, trovammo Carletto che veniva da Genova.
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