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VI.
In quei giorni, ricordo, mi svegliavo di colpo; pensavo a Linda e mi pareva di avercela accanto. Ma poi stavo nel letto occhi chiusi e pensavo a tutt’altro; mi pareva di averci un grosso affanno e di essere come un bambino, piú solo di un cane, aver fatto qualcosa di brutto e di senza speranza. Non avevo piú scampo, non osavo sentirmi, avrei voluto non svegliarmi e morir lí. Neanche l’idea che se un giorno avessi avuto Linda accanto l’avrei presa, mi bastava. Mi facevo pietà, quest’è il fatto. Ero come un bambino che mettono nudo sul tavolo e poi mamma e sorelle se ne vanno di casa. Nascondevo la testa e mi affannavo.
Credevo fosse la stanchezza. Quasi sempre, a non muovermi cosí da quel letto, m’immaginavo di esser storpio come Amelio e non potere uscir mai piú, come quando si prova a chiuder gli occhi e fare il cieco. Poi mi sentivo camminare sulle grucce, mezzo morto. Mi toccavo le gambe e pensavo a Linda, pensavo a quel giorno che Amelio s’era tutto scoperto. «Cos’ho fatto» dicevo. Avrei spaccato la chitarra contro un muro. Avrei voluto essere un altro e sparire.
Andammo a Genova un mattino, in macchina. A casa dissi che ci andavo per lavoro, per conoscere gente — qualcuno voleva sentirmi — e la chitarra è questione di farsi sentire. «Perché non prendi la chitarra? — mi dissero. — È un brutto viaggio» diceva mia madre. Mi misero in tasca un biglietto da cento. Mi vestii grigio, con la sciarpa, e andai felice.
Linda era rossa e raffreddata: viaggiò sepolta sotto un mucchio di coperte. Io stetti avanti con Lubrani e gli diedi una mano alla guida. Di tanto in tanto mi voltavo e gettavo un’occhiata. Lu-
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