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— mi disse, — non puoi stare quest’oggi? Io l’ho fatto per te. Vuol sentirti suonare.

— Ma non è mica un’osteria, casa sua.

Linda disse: — Sei stupido — . Poi mi disse che Lubrani aveva in casa chitarre e ogni sorta di strumenti.

Telefonammo al bar del Corso che avvertissero a casa. Mentre si apriva l’ascensore dissi a Linda: — Gli è passata la sbornia?

— Stai zitto, — mi fece.

— Non c’è mica altra gente?

— Macché.

Venne aprirci una bella ragazza, che disse: — S’accomodi.

Ci portò in quella stanza di prima. Mi tornò in mente tutto quanto. Era impossibile. Non capii perché Linda che con Lubrani si dava del tu, stesse ancora con me. Linda andò al finestrone, era largo come una vetrina, e guardava sui tetti.

Lubrani venne, era vestito chiaro chiaro; non fossero stati quei baffi e gli occhiacci, sembrava un giovanotto anche lui. Bevemmo il liquore, mangiammo sul vetro; Linda mangiava e raccontava, lui rideva e mangiava; quell’altra ragazza non si fece vedere, tutti i piatti eran già apparecchiati. Volevo chieder di Lilí, poi mi trattenni. Stamattina Lubrani era meno bestione; ascoltava anche i miei discorsi; passava i piatti con garbo.

Non si parlò della chitarra. Parlammo invece che doveva andare a Genova in quei giorni, e Linda gli chiese: — Con l’auto?

Alla fine del pranzo mi chiamava Pablito, e ci disse: — Quest’oggi si fa una scappata?

Cosí salimmo sulla Lancia e ripeteva: «Con due ragazzi come voi mi sento un altro».

— Andiamo ai laghi d’Avigliana, — disse Linda.

Andammo ai laghi. A metà strada, nella nebbia, dissi a Linda: — È su quel paracarro che vi siete ammazzati — . Lei fece una smorfia.

— E la chitarra? — disse subito.

Ne parlò con Lubrani che ascoltava e guidava.

— Ne troveremo sul lago, non c’è che chitarre.

Senza voltarsi poi mi disse: — So che voi musicanti non volete cambiare strumento.

Linda disse: — Sciocchezze.

Io quella strada la facevo in bicicletta l’anno prima. Scen-


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