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Dalla sua faccia svogliata e seccata avrei detto che sapeva della partenza. Invece mi chiese se quel mattino ero andato alla spiaggia. Scambiammo qualche parola, e parlando cercavo che cosa avrei dovuto dirgli. Gli chiesi quando tornava in città.

Fece un gesto di fastidio.

— Tornano tutti, — dissi.

Quando seppe di Clelia, giocherellò con la scatola dei cerini. Non gli avevo svelato il motivo della partenza; poi mi parve mortificato — mi balenò il pensiero che si ritenesse lui la causa, per l’incidente del ballo — e allora gli dissi che secondo i suoi desideri la signora aveva fatto la buona moglie e concepito un bambino. Berti mi guardò senza sorridere; poi sorrise senza motivo, posò la scatoletta e balbettò: — Me l’aspettavo.

— È seccante, — gli dissi, — che succedano di queste cose. Le signore come Clelia non dovrebbero mai cascarci.

Senza che m’accorgessi del passaggio. Berti divenne inconsolabile. Ricordo che tornammo insieme verso casa e io tacevo, e lui taceva e girava intorno gli occhi.

— Tornerai a Torino? — gli dissi.

Ma lui voleva andare a Genova. Mi chiese in prestito i soldi del viaggio. Gli dissi se era folle. Mi rispose che avrebbe potuto mentire e chiedermeli per saldare un debito, ma che con me la sincerità era sprecata. Voleva semplicemente rivedere Clelia e salutarla.

— Cosa credi? — esclamai, — che si ricordi di te?

Allora tacque un’altra volta. Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi del viaggio e non lo facevo. Intanto giungemmo nel viottolo, e la vista dell’ulivo m’irritò. Cominciavo a capire che nulla è piú inabitabile di un luogo dove si è stati felici. Capivo perché Doro un bel giorno aveva preso il treno per tornare fra le colline, e la mattina dopo era tornato al suo destino.

La stessa sera ci trovammo al caffè — c’erano tutti, anche Guido, anche la Nina al suo tavolino — e decisi Berti a tornare con me a Torino. Guido voleva portarci a ballare, era disposto a portare anche lui. Ma noi partimmo quella notte.


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