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VIII.

Doro mi spiegò, una di quelle mattine, perché fosse stufo di dipingere. Mi aveva preso a braccetto, e passo passo c’eravamo allontanati dal paese, per lo stradale a strapiombo sul mare.

— Se tornassi ragazzo, — mi disse, — farei soltanto il pittore. Scapperei di casa, sbatterei la porta, ma sarebbe una cosa decisa.

Quella rabbia mi piacque, e gli dissi che in questo caso non avrebbe però sposato Clelia. Doro disse ridendo, che quella era l’unica cosa che non aveva sbagliata. Clelia sí era una bella vocazione. Però, disse, non erano quei quadri scemi che dipingeva a tempo perso ciò che gli faceva rabbia, ma di aver perso la foga e la voglia di parlare con me di tante cose, questo sí.

— Quali cose?

Mi squadrò fieramente senza staccarsi, e cominciò a dire che se la prendevo cosí non si lagnava piú, perché anch’io invecchiavo e si vede che capitava a tutti.

— Sarà, — dissi, — ma se hai perso la voglia di parlare, io non c’entro.

Capivo di essere indispettito e che la cosa era ridicola, ma intanto tacqui e Doro lasciò il mio braccio. Guardavo il mare sotto di noi e un’idea mi passò in mente: che i litigi di lui e di Clelia fossero fatti di sciocchezze consimili?

Ma ecco che Doro riprese a parlare con la voce spensierata di prima, e compresi che del mio dispetto non si era neanche accorto. Gli risposi indifferente, ma il rancore dentro mi crebbe, una vera e autentica ira.

— Non mi hai ancora spiegato perché hai litigato con Clelia, — dissi alla fine.


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