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fischiare nel sonno. Di giorno chi ci pensa? ma di notte pare che sfondi la terrazza, che traversi un paese vuoto e abbia fretta di scappare. È come sentire dal carcere scampanellare i tranvai. Fortuna che viene il mattino.
— Dovreste avere chi vi dorma accanto, — disse Giannino con voce attutita.
— Sarebbe una tresca.
— Storie, — rispose Giannino. — Il maresciallo ne ha due. Ogni uomo ha diritto.
— Noialtri abbiamo il lavoro e voi avete l’amore, mi don Gaetano Fenoaltea.
— Fenoaltea? Quello è un fesso. Si fa mangiar dalle puttane tutti i soldi di suo padre. Ha pure ingravidato una servetta di tredici anni.
Stefano formò con le labbra un sorriso, e sorse in piedi davanti al mare pallido. In quel sorriso lo mordeva l’amarezza di aver creduto i primi giorni all’ingenuità del paese; e c’era pure la sua ripugnanza a scoprire ciò che gli altri commettessero di sordido. Piú che il fatto era il tono canzonatorio di chi raccontava, che gli dava fastidio. Gli impediva di amare comodamente come semplici cose le persone degli altri.
Prima di separarsi da lui, Giannino s’accorse della sua inquietudine, e tacque. Si lasciarono alla porta dell’osteria.
Rincasando quella sera Stefano era sicuro di sé. Trovò una sua giacchetta di pigiama, piegata sul letto, in attesa.
Quando fu buio e il ciabattino del cortiletto ebbe spento, comparve Elena sulla porta, e se la chiuse alle spalle e richiuse le imposte, appoggiandovisi, nera come in lutto. Si lasciò stringere e badare, susurrando di far piano.
Aveva gli occhi umidi sul viso spaventato. Stefano capi che non sarebbe stato necessario parlare, e la trasse con sé. La stanza chiusa e illuminata era soffocante.
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