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Stefano osservava con calma il viso ossuto e la barbetta scabra del compagno. Nella luce tranquilla e fresca gli parve di nuovo di afferrare il ricordo di lui seduto a cavalcioni, in quella lontana domenica, e annoiato. Giannino trasse di tasca una pipetta.

— Ho fatto il militare e veduto un po’ di mondo, — disse frugandola col dito. — Poi ho smesso, perché somigliava troppo alla scuola.

— E adesso che fate?

— Quello che fate voi. Passo il tempo. E tengo d’occhio mio padre, ché i suoi muratori non lo facciano fesso.

— Vostro padre tiene d’occhio voi, — osservò Stefano.

— C’è chi ci tiene d’occhio tutti, — disse Giannino ammiccando. — Cosí è la vita.

Mentre accendeva la pipetta, la buffata azzurrina passò davanti al mare. Stefano la seguiva con gli occhi, e gli giunse, attutita, la frase di Giannino:

— Siamo poveri fessi. Quella libertà che il governo ci lascia, ce la facciamo mangiare dalle donne.

— Meglio le donne, — disse Stefano ridendo.

La voce di Giannino si fece seria.

— Avete già trovato?

— Che cosa?

— Una… donna, diamine.

Stefano lo guardò, canzonatorio.

— Non è facile qui. E poi lo vieta il regolamento. «Non frequentare donne a scopo di tresca o per qualsiasi...»

Giannino saltò in piedi. Stefano lo segui vivamente con gli occhi. — Che scherzate, ingegnere? Voi non potete tenere una donna?

— Posso sposarmi, ecco.

— Oh, allora potete far pure il fidanzato.

Stefano sorrise. Giannino si rabboní e si rimise a sedere.

Il fumo azzurro che tornò a passare, congiungeva l’orizzonte col cielo e creava l’illusione di una traccia di nave.

— Non ne passano mai? — disse Stefano, indicando il largo.

— Siamo fuori d’ogni rotta, — disse Giannino. — Anche chi passa, doppia al largo. È un promontorio di rocce scoperte. Mi meraviglio che ci passi il treno.

— Di notte fa paura, — disse Stefano, — il treno. Lo sento


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