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che Doro vedeva per la prima volta. Uscimmo dall’albergo a fare quattro passi e la luna ci mostrò la strada. Sotto la luna diventammo tutti come il manovale che gli schizzi di calce vestivano in maschera. Doro parlava il suo dialetto; io li capivo ma non sapevo rispondere con scioltezza, e questo ci faceva ridere. La luna bagnava ogni cosa, fin le grandi colline, in un vapore trasparente che velava, cancellava ogni ricordo del giorno. I vapori del vino bevuto facevano il resto: non stavo piú a chiedermi che cosa Doro avesse in mente, gli camminavo accanto, sorpreso e felice che avessimo ritrovato il segreto di tanti anni prima.

Il manovale ci condusse sotto casa sua. Ci disse di far piano per non svegliare le donne e il padre; ci lasciò sull’aia davanti ai grandi fori bui del fienile nella banda d’ombra di un pagliaio, e ricomparve poco dopo, scalzo, con due bottiglie nere sotto il braccio, ridendo con un fare da scemo. Sgattaiolammo tutti giú per il prato dietro la casa, conducendo con noi il cane, e ci sedemmo sulla sponda di un fossato. Si dovè bere alla bottiglia, cosa che spiacque al giovanotto della cravatta, ma Ginio disse ridendo: — Becco chi non ci sta, — e tutti ci stemmo.

— Qui possiamo cantare, — disse Ginio schiarendosi la gola. Intonò a solo, e la voce riempí la vallata; il cane non voleva piú star fermo; altri cani risposero da vicino e da lontano, e allora anche il nostro cominciò a latrare. Doro rideva, rideva con un vocione contento, poi bevve ancora un sorso e si uní alla canzone di Ginio. In due fecero presto tacere i cani, quanto bastò almeno per accorgermi che la canzone era malinconica, con lunghi indugi sulle note piú basse, con parole stranamente gentili in quel grosso dialetto. Naturalmente, può darsi che a renderle tali nel mio ricordo abbiano contribuito la luna e il vino. Ciò di cui sono certo è la gioia, l’improvvisa beatitudine, che provai tendendo la mano a toccare la spalla di Doro. Ne sentii il sussulto nel respiro, e improvvisamente gli volli bene perché dopo tanto tempo eravamo tornati insieme.

Quell’altro, che si chiamava Biagio, ogni tanto urlava una nota, una frase, e poi riabbassava la testa e riprendeva con me un discorso interrotto. Gli spiegai che non stavo a Genova, e che il mio lavoro dipendeva dallo Stato e da una vecchia laurea presa in gioventú. Allora mi disse che voleva sposarsi ma fare una cosa ben fatta, e per fare una cosa ben fatta bisognava avere la fortuna di


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