Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
Una cosa non potei mettere in chiaro quella sera: se Clelia era al corrente della scappata. Da qualcosa nel contegno di Doro avevo la sensazione che no. Ma come tornare su un discorso che l’amico lasciava cadere con tanta caparbietà? Quella notte lo feci dormire sul mio sofà — ebbe un sonno piuttosto agitato — e io pensavo come mai, per comunicarmi una cosa tanto innocente come il progetto di una gita, aveva atteso fino a sera. M’irritava pensare che forse ero soltanto il paravento di un litigio con Clelia. Ho già detto che di Doro fui sempre geloso.
Stavolta prendemmo il treno — di buon mattino — e arrivammo che non faceva ancora caldo. In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant’era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungavano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali. Doro — m’ero proposto di tenerlo d’occhio — prendeva ora con molta calma la gita. Ero riuscito a fargli dire che sarebbe durata al massimo tre giorni. Lo avevo anche dissuaso dal portarsi la valigia.
Scendemmo guardandoci intorno, e mentre Doro che conosceva tutti entrava nell’Albergo della Stazione, io mi fermavo sulla piazza solitaria — tanto solitaria che guardai l’orologio sperando fosse già mezzodí. Non erano ancora le nove, e allora studiai con attenzione l’acciottolato fresco e le case basse, dalle persiane verdi, dai balconi fioriti di glicini e gerani. La villa che in passato era stata di Doro si trovava fuori del paese sullo sperone di una valle aperta alla pianura. Ci avevamo passato una notte durante la gita famosa, in un’antica stanza dalle sovrapporte a fiori, lasciando al mattino i letti sfatti e senza darci altro disturbo che richiudere il cancello. Il parco che la circondava, non avevo avuto il tempo di passeggiarlo. Doro era nato in quella casa — i suoi ci stavano tutto l’anno e c’erano morti — e sposandosi l’aveva venduta. Ero curioso di vedere la sua faccia davanti a quel cancello.
Ma quando uscimmo dall’albergo a passeggiare. Doro s’incamminò da tutt’altra parte. Traversammo la ferrata e discendemmo il corso del fiume. Era chiaro che si andava in cerca di un posto d’ombra come in città si va al caffè. — Credevo andassimo alla villa, — borbottai. — Non siamo venuti apposta?
Doro si fermò, squadrandomi. — Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po’ del mio vino
271 |